AUTOFAGIA NON SUICIDARIA
- Dr. Valeria Ghisu

- 7 gen
- Tempo di lettura: 9 min
Aggiornamento: 19 giu
“E’ un recondito dolore quello che, per ammutolirne uno, ne abbraccia un altro”
L’Autofagia Non Suicidaria è una manifestazione straordinariamente rara ed estrema del comportamento autolesionistico, contraddistinta dal consumo o dalla menomazione di parti del proprio corpo, al fine di ricavare un certo sollievo emotivo e/o rispondere ad uno stato dissociativo.
Sebbene l’impulso autolesionistico sia (comunemente) associato a tagli, bruciature e ad altre forme lesive, l’autofagia si distingue per il suo carattere peculiare e, spesso, devastante.
Il soggetto coinvolto, in genere, non presenta un’intenzione suicida; non mira al porre fine alla propria vita, ma ad un disperato tentativo di gestione (disfunzionale) della propria sofferenza interiore e/o di alterati stati della sua coscienza.
CARATTERISTICHE ED ESPRESSIONI CLINICHE
Questo tipo di disordine comprende una vasta gamma di comportamenti tra cui il mordicchiarsi la pelle, le labbra e le unghie o, persino, mutilazioni più profonde come la lacerazione e l’ingestione di tessuti corporali, che riflettono una profonda frattura nel rapporto con le proprie membra; esso è, infatti, collocabile nel punto d’intersezione tra: psicopatologia, dissociazione e disturbo dello schema corporeo.
Alcuni pazienti riferiscono una mancata percezione del dolore durante questi atti, indicando uno stato dissociativo capace di ridurre, temporaneamente, la consapevolezza fisica.
Tra le principali caratteristiche del disturbo si osservano:
Compulsione: viene spesso riportata un’impellente necessità di danneggiare se stessi (quasi come fosse un riflesso automatico), al punto tale da risultare assai arduo controllare o interrompere l’azione.
Assenza di Intenzionalità Suicidaria: come affermato poc’anzi, nonostante l’apparente consapevolezza del danno fisico, il soggetto nega l’intenzione suicida, ma riporta una momentanea sensazione di sollievo/liberazione dall’angoscia/dalla
tensione emotiva nel gesto di mangiare e/o ferire se stesso.
Lesioni Potenzialmente Gravi: a lungo termine, queste malsane abitudini possono causare infezioni, lesioni permanenti, cicatrici, menomazioni, deformazioni e disabilità, soprattutto se le zone colpite vengono ripetutamente compromesse.
Le aree maggiormente e abitualmente lesionate includono: unghie e cuticole, soggette a morsicatura ossessiva fino a causarne il sanguinamento; labbra e cavo orale, che possono sviluppare ulcere croniche se reiteratamente lesi; dita o
arti (in casi estremi, l’individuo può tentare di masticare anche i tessuti molli). Tuttavia, anche altre parti corporee presentano delle ferite auto-inflitte, al fine di prelevare delle piccole porzioni di carne da ingerire.
POSSIBILI ORIGINI DEL DISTURBO
Le teorie e le basi psicopatologiche dell’ANS includono elementi provenienti da più discipline, tra cui: la psicologia
clinica, la neurobiologia e la psichiatria.
Il comportamento autofagico è spesso associato ad esperienze traumatiche pregresse che, causando una fenditura nel rapporto mente-corpo, possono condurre ad una risposta dissociativa.
La dissociazione è un fenomeno piuttosto frequente, durante il quale il paziente non percepisce se stesso come “interamente presente e connesso nella/alla propria fisicità”; ciò favorisce una diminuzione o, comunque, un’alterazione della funzione nocicettiva e facilita l’eccesso dell’agire autolesionistico.
L’eziopatogenesi dei disturbi dissociativi risulta ancora opinabile e, nonostante la teoria maggiormente condivisa individui una stretta correlazione tra trauma e dissociazione, eventuali disagi potrebbero, tuttavia, non dipendere da essa.
L'assenza di uno shock identificabile e diretto, infatti, non esclude la possibilità di sviluppare tali affezioni, poiché altri fattori (genetici, biologici, relazionali, socio-culturali e ambientali) possono contribuire.
L'influenza ambientale, che includa una condizione di stress prolungato, ad esempio (a causa di eventi non necessariamente classificabili come “traumi”), è in grado di scatenare fenomeni dissociativi senza, appunto, essersi registrato uno sconvolgimento diretto.
Una combinazione plus-fattoriale può senz’altro contribuire al mancato sviluppo di una concezione coesa del sé, pertanto, facilmente "scomponibile".
Un individuo può essere, inoltre, bio-geneticamente predisposto/vulnerabile alla dissociazione.
La SANS può essere interconnessa ad un’alterazione percettiva del proprio corpo per cui alcune parti di esso vengono percepite come “estranee” o addirittura “fastidiose/inutili”, a tal punto da volerle rimuovere (similmente ai fenomeni osservabili in alcuni casi di dismorfofobia).
Questo vissuto si accompagna, talvolta, a disturbi quali la depersonalizzazione e la disforia dell’integrità corporea
(un’altra rara, e scarsamente approfondita, condizione clinica).
Un’inefficace regolazione emotiva può ricercare nell’autolesionismo una provvisoria via fuga, poiché l’atto in sé stimola il rilascio di endorfine (sostanze chimiche prodotte dal cervello, nonché neurotrasmettitori dalla potente attività analgesica e galvanizzante).
Molteplici studi effettuati su pazienti autolesionistici, evidenziano delle anomalie (in senso deficitario e/o eccedente) nei circuiti dopaminergici e serotoninergici che regolano l’impulsività e la capacità d’inibizione dei comportamenti distruttivi.
L’ANS potrebbe rappresentare una manifestazione estrema di siffatte irregolarità.
Eseguire una diagnosi differenziale è fondamentale per poter distinguere (con accuratezza) questa specifica patologia da altre come la tricotillomania e la tricotillofagia che possono presentare comportamenti simili, ma meno generalizzati; la pica, spesso associata a disturbi neurologici e/o a carenze nutrizionali; il disturbo ossessivo-compulsivo che può includere lesioni auto-inflitte, senza la componente del “sollievo emotivo” o i disturbi psicotici in cui i pazienti possono compiere degli atti autofagici in risposta a deliri e/o allucinazioni.
TRATTAMENTO
L’ANS risulta essere una condizione piuttosto complessa e, spesso, richiede un tipo di approccio multidisciplinare e personalizzato che include trattamenti basati sulla terapia cognitivo-comportamentale e dialettico-comportamentale
(al fine di ridurre l’atteggiamento auto-lesionistico e fornire delle alternative di condotta) come strategie di regolazione emotiva e tecniche mirate al controllo dell’impulso, all’identificazione e alla modifica dei pensieri disfunzionali.
La psicoterapia focalizzata sul trauma può rivelarsi utile nell’esplorazione e nella gestione delle radici traumatiche di determinati comportamenti.
Comprendere le motivazioni e le convinzioni che spingono all’autofagia è di fondamentale importanza, per poter imparare a fronteggiarla in maniera differente.
In alcuni casi, la terapia farmacologica si rende necessaria in quanto gli antidepressivi e/o gli stabilizzatori dell’umore possono aiutare a mitigare l’impulsività e il desiderio auto-distruttivo, soprattutto se combinati a disturbi d’ansia e depressione.
Anche la terapia occupazionale e le strategie di sostituzione (come la manipolazione di oggetti sicuri) o di deviazione dell’attenzione possono contribuire, in maniera più salutare, allo scarico pulsionale.
Tecniche ed esercizi atti a sviluppare l’auto-controllo e la consapevolezza (come la “scannerizzazione del corpo”, la tecnica “STOP”, l’attività fisica, la scrittura emotiva e l’espressione creativa), aiutano a riconoscere, ridurre e gestire l’imput autofagico.
Nei casi più severi è fondamentale disporre di un supporto medico-chirurgico che possa intervenire nella cura di
eventuali infezioni (locali o sistemiche), lesioni croniche o plastiche ricostruttive.
L’integrazione di tecniche meditative/respiratorie e di diverse forme di arte-terapia può aiutare i pazienti a sviluppare
una maggiore consapevolezza di se stessi e del proprio corpo, favorendo l’interruzione degli schemi dissociativi.
È bene tener sempre presente che, a causa della natura estrema del disturbo, la cura di questi soggetti richiede, realmente, una vasta sensibilità capace di rispettare il senso di estraneità e disagio, senza avanzare giudizio alcuno.
Le implicazioni psico-sociali, infatti, impattano profondamente sulle loro vite.
La visibilità delle cicatrici e la paura del pregiudizio e del giudizio li portano (non tutti) ad evitare i contatti sociali, sfociando nell’isolamento.
Le infezioni ricorrenti, la perdita tissutale e le deformità permanenti possono compromettere significativamente la salute
e la funzionalità corporea.
L’estremismo comportamentale, essendo mal compreso, viene socialmente stigmatizzato fomentando la marginalizzazione
e la difficoltà d’accesso alle cure.
A tal proposito può rendersi utile l’ausilio di reti di supporto e terapie di gruppo (comprese quelle familiari) che offrono la possibilità di interagire con individui dal vissuto simile (riducendo il senso di solitudine) e contribuiscono alla
creazione di un ambiente di supporto in cui vi sia non soltanto la condivisione della propria esperienza, ma anche di
soluzioni e strategie funzionali.
L’interesse clinico verso questo disturbo non si limita agli aspetti psicologici e comportamentali, ma si estende ad una valutazione olistica dell’individuo comprendendo caratteristiche biologiche, genetiche e persino componenti esaminabili mediante altre discipline come la grafologia e l’iridologia.
L'approccio tradizionale, seppur essenziale, può decisamente trarre ulteriori benefici dall’integrazione di metodi non convenzionali che possono condurre ad una maggiore comprensione dell’origine e del decorso della patologia.
La grafologia, nella vastità del suo potenziale, può anche offrire dei significativi elementi sulla personalità (nel senso più ampio del termine) e sullo stato psico-emotivo del paziente.
Specifiche alterazioni grafiche potrebbero riflettere una certa difficoltà nel controllo degli impulsi, una tendenza all’auto-lesionismo, un senso di mancata consapevolezza e gestione dei confini interni ed esterni, una certa problematicità nella regolazione emozionale e/o una frattura tra la percezione del sé e della realtà.
La scrittura è un gesto neuro-fisiologico che origina nel cervello e si trasmette alla mano (organo effettore ultimo) attraverso un complesso meccanismo neuro-muscolare.
La grafia è la proiezione inconscia e spontanea dell’intimità latente umana, che racchiude l’impronta di ogni evento vissuto.
Nell’atto grafo-motorio è coinvolta l’intera sfera della soggettività, nella sua originalità.
Lo scrivente esprime e ripropone su carta il proprio mondo interiore e la propria struttura psico-fisica; unica, irripetibile
ed in continuo divenire.
L'iridologia, invece, tramite lo studio dell'iride consente di individuare segni di squilibri corporei e/o predisposizioni genetiche, rendendosi utile nella valutazione della salute generale dell'individuo.
Nel caso dell’autofagia non suicidaria, permette l’osservazione di segni presumibilmente connessi ad una condizione di
stress cronico o ad un sovraccarico psico-fisico; predisposizioni neurologiche che potrebbero suggerire una vulnerabilità agli stati dissociativi e ad una condotta particolarmente sanguigna.
Specifiche caratteristiche biologiche e genetiche possono contribuire e aprire la strada ad una comprensione più profonda e sfaccettata dell’essere umano, impreziosendo il campo d’indagine.
Diversi studi genetici suggeriscono un possibile coinvolgimento dei geni legati alla regolazione serotoninergica e dopaminergica. Mutazioni in questi sistemi possono aumentare l'irruenza e la difficoltà nell’auto-regolazione; due
tratti centrali in questa sindrome.
Gli esami strumentali come le risonanze magnetiche funzionali (fMRI) possono mostrare anomalie nelle aree cerebrali associate al controllo dell’impulso (corteccia prefrontale) e alla percezione del dolore (corteccia insulare).
Elevati livelli di cortisolo (biomarcatore), associati a stress cronico, possono aggravare la propensione all’autolesionismo. Una risposta immunitaria alterata o un’infiammazione sistemica può, inoltre, influenzare negativamente il funzionamento neuropsicologico.
L’epigenetica sottolinea come le esperienze traumatiche e/o l’esposizione a stress prolungati possano mutare l’espressione
genica rendendo l’individuo più vulnerabile a disturbi complessi come questo.
Analizzare eventuali cambiamenti può contribuire all’individuazione e alla progettazione di potenziali e mirati interventi preventivi e/o terapeutici.
Ognuna di queste aree del sapere illumina un diverso aspetto del comportamento auto-fagico, arricchendo la diagnosi
e il follow-up.
CASI CLINICI DOCUMENTATI E OSSERVAZIONI
Sono stati documentati, in medicina legale, degli eventi in cui alcuni individui hanno manifestato lesioni auto cannibalistiche, senza intenzioni suicidarie (spesso durante episodi psicotici o sotto l’effetto di sostanze).
Questi casi hanno confuso gli investigatori portandoli ad avanzare ipotesi incentrate su forme di tortura e/o di aggressione.
Si è anche osservata un’anomala ed eccezionale rigenerazione tissutale; un fenomeno interessante, ma poco studiato. L’ipotesi biologica ritiene che, in alcuni individui, la continua stimolazione meccanica possa innescare una risposta
accelerata dei meccanismi di riparazione cellulare per un aumento dei fattori di crescita (come quello epidermico che promuove la proliferazione delle cellule cutanee).
Taluni ricercatori ipotizzano che, in rari casi, la rigenerazione atipica potrebbe tradursi in una forma di adattamento evolutivo, in risposta a traumi ripetuti.
In persone con capacità rigenerativa più rapida, si riscontra una minore probabilità di sviluppare infezioni e complicazioni da ferita; tuttavia, ciò potrebbe risultare controproducente incentivando la ripetitività di determinati comportamenti, poiché mentre la lesione si ripara, la pelle (apparendo più spessa e/o ruvida) potrebbe essere percepita dal soggetto come ulteriormente "irregolare" e/o fastidiosa/estranea, portandolo nuovamente a danneggiarla.
Molteplici altre particolarità affiorano da alcune esperienze e osservazioni cliniche: per alcuni pazienti, l'ANS rappresenta
una forma consapevole e/o inconsapevole di "auto-sabotaggio emotivo"; per altri, una forma di controllo estremo sul proprio corpo, percepita come un’autentica arte.
Sporadicamente il soggetto sceglie delle specifiche aree (da attaccare) per ragioni simboliche o, nei contesti di
trasformazione corporale estrema, manifesta un ossessivo interesse per la modifica del proprio corpo, usando l’autofagia come processo metamorfico.
Un caso riportato, ad esempio, vede protagonista un uomo che mordeva costantemente le proprie cicatrici chirurgiche, al fine di modificarne l’aspetto, sostenendo di "plasmare" la propria figura come farebbe uno scultore.
Altri insoliti casi:
Autofagia Ritualistica Inversa: descrive un individuo che addentava ed ingeriva piccole parti della propria cute per “trattenere” ricordi o emozioni. Egli riteneva che il suo stesso corpo, in parte consumato, fosse divenuto una “capsula biologica temporale”; una curiosa fusione tra compulsione e simbolismo.
Autofagia Sinestetica: ci fu una donna che associava determinati colori o suoni alle parti del proprio corpo; ad esempio, mordersi un’unghia le faceva percepire un “gusto blu” mentre la pelle delle mani l’associava ad un “suono metallico”.
La sinestesia, infatti, è quel fenomeno percettivo in cui uno stimolo coinvolge uno o più sensi (appartenenti a distinte
sfere sensoriali) contemporaneamente, dando luogo ad un insolito intreccio.
Autofagia come Stimolazione Intellettuale: questa circostanza ha coinvolto una persona che affermava di praticare l’autofagia, poiché il dolore acuto migliorava la sua concentrazione e creatività.
Descriveva l’atto di mordere le proprie estremità come un modo per “risvegliare la mente” durante le sessioni di studio o lavoro intensi; un comportamento paragonabile, per certi versi, agli stimoli fisici auto-imposti (come schiaffi o pizzicotti) finalizzati al mantenimento dell’attenzione.
Autofagia Programmata: alcuni soggetti sviluppano dei veri e propri “schemi ritualistici” come il mordersi una specifica parte del corpo, in determinati momenti.
Un uomo lo faceva soltanto al tramonto, sostenendo che “l’ora dorata” mitigasse il dolore; un po’ come se egli
sottintendesse un tentativo di controllo e/o razionalizzazione di una compulsione.
Queste sono alcune delle intricate realtà riscontrabili in questo specifico contesto clinico.
È chiaro come una maggiore consapevolezza e ricerca potrebbero apportare importanti miglioramenti, sia dal punto di vista valutativo e terapeutico, sia a livello umanistico, in quanto offrirebbe un’ulteriore speranza ai pazienti che vivono ai margini dell’esperienza clinica tradizionale. L’autofagia non suicidaria è, in effetti, una di quelle condizioni tanto complesse da sfidare i limiti delle categorie diagnostiche tradizionali e sollecitare la sintesi di metodologie innovative.

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